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Bosco della Frattona
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Il fascino della Pieve del Thò a Brisighella

( 16 Settembre 2022 )

Il Parco della Vena del Gesso è eminentemente naturale, fatto di rocce, alberi, fiori, animali selvatici … tuttavia ci sono anche gli uomini, verissimo, con tutto il pro e tutto il contro che ne deriva. Ma lasciamo a parte concetti filosofici e vediamo cosa può fare il semplice turista dopo aver visto Monte Mauro o il Carnè, dopo aver camminato poco o tanto fra doline, ingressi di grotte, falesie con la macchia mediterranea in versante sud e più refrigeranti boschi o boschetti (ma a cercarli ci sono anche i castagneti!) in versante nord.

Il primo “pretesto” ci viene dalla recentissima uscita di un volumetto a cura di Patrizia Capitanio e Lucio Donati su una delle attrazioni turistiche principali, forse la più importante per chi cerca il Medio Evo vero, fisicamente conservato, non rifatto o evocato. Si tratta di «Pieve di San Giovanni in Ottavo a Brisighella. Il paliotto d’altare e l’architettura. Nuove considerazioni» (56 pagg., con foto a colori e disegni, Carta Bianca ed. Faenza).

E’ ben noto come la Pieve del To – contrazione dialettale di “Ottavo”, riferito alla distanza in miglia romane da Faenza, dove la strada si staccava e si stacca dalla Via Emilia per dirigersi verso Firenze – sia un concentrato di sorprese, anche molto complesse da un punto di vista cronologico e stilistico, una sorta di fungo poggiante su un vecchio albero, il tutto databile al X-XI secolo ma su insediamenti preesistenti: una villa rustica di età imperiale ed un oratorio paleocristiano. A complicare ulteriormente le cose c’è il riutilizzo di materiale di spoglio romano molto prestigioso, quasi certamente proveniente dalla Ravenna capitale del V-VI secolo e con colonne in granito del IV sec., capitelli che vanno dal I al V e, nei sotterranei, parecchi reperti ancor più sorprendenti, come un macinello per olive in trachite (la roccia dei Colli Euganei, molto apprezzata dai Romani) del II sec., una tomba “alla cappuccina” con bellissimi tegoloni ad embrice in cotto, una transenna in marmo rilavorata per adattarla ad una finestra, oltre a vari oggetti liturgici (parti di ambone, di un pulpito, frammenti di colonne) riemersi negli scavi degli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 che portarono in luce la cripta (in realtà oratorio molto antico, poi effettivamente adibito a cripta in età romanica e riempito di macerie, sigillato e dimenticato attorno al 1570 assieme agli altri ipogei adiacenti).

Non era mai stato esaminato con cura – o meglio, non si erano mai fatti come stavolta confronti stilistici al fine di appurarne cronologia e tipologia – il bellissimo bassorilievo oggi adibito a paliotto dell’altar maggiore, fino al 1979 murato in esterno sopra la porta d’ingresso. Appare bellissimo per chi apprezza la scultura altomedievale autentica, magari rozza eppur convincente, non priva di suggestioni popolaresche e corsive, derivanti dalla traduzione “ingenua” di prototipi aulici come

potevano essere, in questo caso, i grandi sarcofagi ravennati. Nella sua ricerca Patrizia Capitanio prende le mosse dalle precedenti attribuzioni, che vanno – nelle vecchie guide, nei saggi scientifici e insomma nelle varie fonti, tutte elencate in bibliografia – dal VII al XII secolo. Anche autore e materiali erano controversi: si ipotizzava arte longobarda o carolingia e si oscillava fra arenaria e calcare anche a causa di una ridipintura color cenere di fine ’800 che aveva uniformato la superficie coprendo la fine calcarenite di provenienza italiana nord-orientale di recente identificata.

Patrizia Capitanio riesamina il reperto, ne studia la non semplice iconografia e propone infine confronti stilistici, supportati da immagini, con una decina di sculture analoghe: l’Altare di Ratchis a Cividale del Friuli, il paliotto della Cattedrale di Sarsina, i bassorilievi sulla facciata dell’Abbazia di San Donnino al Soglio (Rocca San Casciano), i Santi Gemini da lì provenienti e oggi conservati in paese, la lastra con Sant’Ellero dall’omonima abbazia di Galeata e oggi a Pianetto nel Museo Mambrini, il Profeta del Museo Diocesano di Faenza, due Volti in altrettanti elementi architettonici faentini e infine due Mani divine, rispettivamente su una croce viaria alla Malatestiana di Cesena e su una stele della Pieve di Monte Sorbo.

Le conclusioni cui perviene Capitanio sono riferite alla seconda metà dell’VIII secolo per la datazione e ad un anonimo autore longobardo che tuttavia “si contamina” nel crocevia ravennate, ricorrendo ad un’iconografia a prima vista «goffa e piatta», ma ricca di significati simbolici e riconducibile all’antica Traditio Legis di derivazione tardo imperiale romana.

Il secondo autore, Lucio Donati, affronta altri “problemi” relativi a questa misteriosa, sempre stimolante chiesa e che sono connessi con la sua pluristratificata architettura. Donati avanza l’ipotesi che l’edificio non sia stato prolungato a fine ‘500 come sempre sostenuto sulle parole del pievano Callegari che scrive di aver «restaurato ed augmentato la pieve». Donati suppone che gli ampliamenti si siano limitati alla canonica oppure ad aumenti del beneficio ecclesiastico (prebende) della Pieve stessa; la presenza di lacerti di affreschi in controfacciata databili secondo Donati tra fine ’200 e metà ’400 rafforzerebbe la sua tesi. Infine l’autore propone una datazione più antica – rispetto al XVI secolo – per un altro misterioso reperto, la fornace per la fusione delle campane in bronzo tuttora visibile oggi nei sotterranei.

P.S. L’apertura al pubblico di Pieve del To è assicurata da volontari della parrocchia e di norma si limita alla domenica pomeriggio. Buona visita!!!

Testo di Sandro Bassi

Il fascino della Pieve del Thò a Brisighella
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